Investment stewardship: tra Teoria e Pratica
In questo articolo proveremo a definire un concetto sempre più importante nel mondo della finanza ma spesso sconosciuto al grande pubblico: investment stewardship. Per far ciò, inizieremo dalla teoria economica, osservando l’impatto della dinamica principal-agent sulla gestione aziendale. In seguito, vedremo quali soggetti oggi esercitano i diritti di voto in assemblea e come le loro preferenze di voto siano determinate, o influenzate, da una pluralità di soggetti. Concluderemo infine con una sintesi e con ulteriori spunti di ricerca.
In economia, una delle teorie classiche afferma che la gestione dell’azienda passi attraverso il conflitto/interazione tra un “principal” e un “agent”: ovvero, tra chi detiene la proprietà dell’azienda, vale a dire gli azionisti (in inglese “shareholders”), e i loro delegati (perciò definiti “agent”) che materialmente gestiscono il day to day business, il management. Interessante notare, en passant, come in questo caso la lingua italiana catturi appieno questa dimensione, definendo il CEO “Amministratore Delegato”. I due soggetti, shareholders e management, interagiscono primariamente durante l’assemblea degli azionisti (in inglese AGM, o “Annual General Meeting”): un momento chiave nella “corporate democracy”, in cui ai primi viene chiesto di ratificare le azioni e le scelte del management, eventualmente rinnovandone il mandato per gli anni a venire.
Secondo la teoria principal-agent, gli azionisti esercitano i propri diritti di voto durante l’AGM con un obiettivo di fondo: allineare la corporate governance aziendale e l’operato del management ai propri interessi. Quando la corporate governance non funziona, gli esiti possono essere catastrofici: due casi studio da manuale sono il crack Parmalat, sul piano italiano, e il tracollo di Enron su quello internazionale. Del resto, le cronache sono ricche di esempi: l’uso dei fondi aziendali per acquistare jet e auto sportive, la creazione di “golden parachutes” che garantiscono liquidazioni d’oro in caso di licenziamento o operazioni di M&A, o ancora, politiche di remunerazione slegate dai risultati economici dell’azienda – che potenzialmente “premino il fallimento” del management piuttosto che creare un incentivo positivo. Dunque, è compito degli azionisti vigilare attentamente sull’operato del management aziendale, assicurandosi che le loro scelte siano in linea con gli interessi dei “principal”.
Bisogna però tenere a mente che questa operazione di vigilanza e verifica è onerosa, sia in termini di tempo che di risorse economiche – mezzi che, tipicamente, il piccolo azionista non possiede. Di conseguenza, per decenni il management di grosse aziende quotate ha goduto di quasi assoluta libertà rispetto al proprio operato, occasionalmente abusando di tale assenza di controllo o per interesse personale, o per occultare in maniera fraudolenta performance aziendali deludenti. Alla fine, spesso è stato il piccolo azionista a pagarne il prezzo.
Come abbiamo visto in precedenza, vi sono però almeno due tipi di azionisti: investitori individuali e investitori istituzionali. Sebbene sia molto complesso stabilire la fetta di mercato controllata dall’uno e dall’altro, il trend storico del mercato statunitense, che prendiamo come cartina di tornasole, è evidente: nei decenni, le famiglie (households) hanno lasciato il posto ai grandi investitori istituzionali: fondi pensione, come CalPERS, o gestori di fondi (asset managers) come BlackRock, Vanguard e State Street. Si noti anche che la parte di fondi sotto la voce “household” viene comunque spesso gestita da fondi pensione, ovvero da investitori istituzionali.
Quali conseguenze ha questa “redistribuzione” del mercato sulla dinamica “principal-agent” che abbiamo descritto precedentemente?
Siamo di fronte a una separazione tra la proprietà e il controllo delle società quotate. Gli asset manager, infatti, non possiedono il denaro e i titoli azionari dei propri clienti, ma li gestiscono per loro conto. Da un punto di vista formale, ma anche sostanziale, il nuovo “principal” non è più chi conferisce i capitali, ma chi li amministra, poiché detiene i diritti di voto in assemblea.
Gli investitori istituzionali rivestono allora un ruolo duplice: da un lato, mettono a frutto il capitale dei propri clienti acquistando azioni di società quotate; dall’altro, si assicurano che tali società lo utilizzino in modo appropriato. Se, come abbiamo visto, il piccolo azionista non ha le risorse necessarie per vigilare sull’utilizzo del proprio capitale, gli investitori istituzionali possiedono invece economie di scala tali da rendere questa operazione possibile, per via delle loro dimensioni. Arriviamo così alla definizione concettuale di stewardship: gli investitori istituzionali sono stewards, guardiani, del capitale dei propri clienti.
Così come il piccolo azionista, essi esprimono le proprie preferenze durante l’AGM, con un voto a maggioranza – processo che in inglese viene chiamato “proxy voting”. Se ci fermassimo qui, sarebbe naturale pensare che gli investitori istituzionali abbiano l’ultima parola sulle votazioni assembleari, e da un punto di vista strettamente formale – ovvero, se si guarda a chi è il soggetto detentore dei diritti di voto – è così. Ma dietro al voto assembleare vi è un microcosmo di soggetti che interagiscono, influenzandosi l’un altro, e partecipano a questo processo. Vale la pena osservarli più da vicino.
- Proxy Advisors
Queste società, come il nome suggerisce, offrono servizi di advisory per quanto riguarda le votazioni assembleari (proxy). Le due società principali a livello globale sono ISS (Institutional Shareholder Services) e Glass Lewis, che da sole controllano il 90% del mercato di proxy advisory. Nel concreto, esse svolgono tre compiti essenziali. Da un punto di vista puramente tecnico, esse offrono agli investitori le piattaforme tramite cui votare in assemblea. Inoltre, ogni anno pubblicano una serie di linee guida (proxy voting guidelines/policy) che mettono nero su bianco le loro preferenze in termini di corporate governance. Infine, sulla base di queste linee guida e dopo aver analizzato da vicino le società quotate, offrono raccomandazioni di voto agli azionisti istituzionali.
Il peso specifico dei proxy advisors è ingente: un think tank statunitense, in un report del 2018, rileva che ben 5 trilioni di capitale gestito (asset under management, AUM) ed un totale di 175 investitori istituzionali allineano il proprio voto (cosiddetto “robo-voting”, o “votazione automatica”) a quanto suggerito dai proxy advisors almeno nel 95% dei casi. In altre parole, su 100 voti 95 sono determinati da un soggetto esterno, ovvero il proxy advisor. Questi 175 investitori non costituiscono un’eccezione: la maggior parte degli asset owner/manager vota “in automatico”, allineandosi al proprio proxy advisor di riferimento, tra l’80% e il 90% dei meeting a cui partecipa. Dunque ISS e Glass Lewis occupano un ruolo di primo piano, controllando un’ampia fetta del mercato e degli annessi diritti di voto degli investitori istituzionali.
- Società di consulenza in Proxy Solicitation/Corporate Governance
A questo punto, la partita sembra chiusa per il management, sottoposto a stretta vigilanza e alla prospettiva di un voto contrario in assemblea. Ecco che qui, però, scatta la controffensiva: il management può affidarsi a un proxy solicitor, che spesso offre anche consulenza in ambito corporate governance. Dal verbo inglese “to solicit”, in italiano “sollecitare, chiedere (con insistenza)” (fonte), queste società si occupano appunto di comunicare con gli investitori istituzionali per conto del management. In particolare, il loro ruolo è:
- Organizzare meeting tra il management e gli azionisti di primo piano, sulla base del numero di azioni/diritti di voto in assemblea controllati da essi. Alcuni proxy solicitor “preparano” il management alle domande più ostiche, con un vero e proprio training;
- Prevedere gli esiti delle votazioni assembleari, usando le linee guida rilasciate da ISS e Glass Lewis come riferimento per valutare la corporate governance dei propri clienti;
- Costruire una narrativa attorno agli aspetti problematici dei propri clienti e comunicarla, da un lato, ai proxy advisors, dall’altro agli investitori istituzionali.
Inoltre, se il proxy solicitor ritiene che un proxy advisor raccomanderà di votare contro il management e può evitarlo, si mette in contatto con quest’ultimo. Un esempio classico ha a che fare con le informazioni anagrafiche e professionali: in certe giurisdizioni (in Germania, ad esempio) i proxy advisors locali (BVI) raccomandano automaticamente di votare contro un candidato al consiglio di amministrazione se l’azienda non divulga tutte le informazioni anagrafiche (età, data e luogo di nascita) e professionali (il CV del candidato). Accade più spesso di quanto si creda che l’azienda ometta una di queste informazioni per sbaglio, o che sia difficile trovarle. Il proxy solicitor si occupa di facilitare questo processo.
Più concretamente, queste società di consulenza si occupano di passare al setaccio le parti più critiche di un voto in assemblea (solitamente i candidati al consiglio di amministrazione e il pacchetto di remunerazione, oltre a operazioni speciali come fusioni e delisting se presenti).
Va precisato che i contatti tra gli stakeholder sono multidirezionali e frequenti: può capitare che un proxy advisor contatti il management di un’azienda per ricevere chiarimenti prima di rilasciare una raccomandazione di voto, così come un investitore istituzionale può mettersi in contatto di sua volontà con un proxy solicitor in mancanza di rapporti diretti con il management di un’azienda. Infine, va detto che se, sul piano teorico, l’interazione tra investitori istituzionali e management vede i primi come “guardiani” e i secondi come “sorvegliati” da questi ultimi, la realtà è molto meno conflittuale ed è anzi spesso collaborativa.
Disaggregando la figura dell’investitore istituzionale nelle sue parti componenti (ovvero, i singoli gestori di fondi, ognuno con strategie e specializzazioni diverse), si noterà come alcuni portfolio managers possano essere molto indulgenti con il management, spesso scavalcando (over riding) il parere del proxy advisors e sostenendo l’azienda, Ciò avviene, tipicamente, con i fondi concentrati sulle piccole aziende quotate (small cap): se ISS/Glass Lewis applicano i propri criteri in maniera quasi automatica, differenziando solo in parte rispetto alla grandezza dell’azienda analizzata, i portfolio managers hanno spesso contatti molto fitti con le piccole imprese in cui investono.
Più in generale, gli investitori istituzionali sono molto più propensi a concedere il “beneficio del dubbio”, e di conseguenza il sostegno in assemblea, a società che hanno offerto una performance di borsa positiva, anche in presenza di aspetti preoccupanti da un punto di vista della corporate governance. Esattamente all’opposto, un’azienda che ha avuto difficoltà con il proprio titolo e ha perso valore sarà sottoposta a ulteriore scrutinio, poiché si riterrà che la cattiva performance sia – almeno in parte – dovuta a una gestione poco adeguata da parte del management.
In questo articolo abbiamo offerto un veloce spaccato di un mondo ancora sconosciuto ai più, e conosciuto solo da poche migliaia di professionisti al mondo: l’investment stewardship. Già negli ultimi anni, però, il settore ha visto una crescita esponenziale, guidata anche dai requisiti normativi in campo di disclosures e sostenibilità (si pensi alla recente legislazione europea in materia di investimenti sostenibili). Dunque, è un ottimo momento per informarsi e avvicinarsi a questo universo. Speriamo, con questo articolo, di avervi aiutato a farlo.
A cura di Joseph Insirello.
Joseph Insirello lavora in ambito proxy voting/investment stewardship. Dopo aver concluso i suoi studi presso la London School of Economics, si è unito a Morrow Sodali, società di consulenza leader nel campo della proxy solicitation e corporate governance. In seguito, ha fatto parte del Governance & Stewardship team di Janus Henderson Investors. Prossimamente entrerà a far parte del team di Investment Stewardship di UBS.